Il nome di Octay come promessa: la sicurezza è un diritto

Non so quanto resisto.
Octay si è arreso nel cuore della notte.
È morto l’operaio rimasto intrappolato nella Torre dei Conti, a Roma.
Ho seguito ogni istante, come tante e tanti di noi.
Il massaggio cardiaco in ambulanza, la corsa in ospedale.
Ma non ce l’ha fatta.
È successo davanti ai nostri occhi, in diretta.
Abbiamo pregato insieme. Abbiamo sperato.
E ora resta solo un silenzio che pesa, che taglia il fiato.
Mi stringo al dolore della sua famiglia, dei suoi amici, dei colleghi.
A chi stamattina deve dire ai propri cari che Octay non tornerà più.
A chi, come lui, ogni giorno sale su un’impalcatura, entra in una fabbrica, guida un camion o scende in una galleria.
A chi lavora per vivere, non per morire.
Non può essere normale morire così, lavorando.
Non può essere accettabile chiudere gli occhi e voltarsi dall’altra parte.
Quante altre volte dovremo leggere notizie come questa?
Quante altre famiglie dovranno piangere un figlio, un padre, un fratello, un compagno di lavoro?
Basta.
Ogni vita conta.
Ogni turno deve finire con un ritorno a casa.
La sicurezza non è un costo.
È un diritto.
E uno Stato, un Paese, una società che non protegge chi lavora, perde se stessa.
Che il nome di Octay resti con noi.
Non come una notizia, ma come una promessa: mai più.


