Viaggio nel carcere femminile di Rebibbia per la campagna “Madri fuori”

Entrare in un carcere femminile e ascoltare le storie delle detenute madri, che scontano la pena assieme ai loro bambine e bambini, significa passare al setaccio tutti le carenze e difficoltà della nostra società.

E’ quello che ho provato visitando la casa circondariale femminile di Rebibbia, a Roma, che ospita circa 380 detenute, 100 in più del numero previsto per la struttura, diretta da una donna come quasi tutte le carceri del Lazio: su 12 direttori, infatti, solo due infatti sono uomini. Della serie, è uno sporco lavoro ma qualcuno deve pur farlo.

Lungo questo percorso fatto di cigolii, serrature e padiglioni, la prima tappa di questo viaggio dietro le sbarre è il tema drammatico del sovraffollamento delle carceri, che nel Lazio raggiunge il 145%, a fronte di un dato nazionale del 132,4%, con picchi del 185% a Regina Coeli, a Civitavecchia (178), a Rieti (174) e Latina (171).
Ma oggi, a ridosso della Festa della Mamma, sono qui per le tre madri detenute insieme con i loro figli, rispettivamente due bimbi di 3 e 2 anni e un neonato. Sono tre dei 26 bambini che in Italia vivono in carcere con le 23 detenute madri, scontando una pena che non appartiene a loro, privati delle stesse possibilità di chi invece ha semplicemente avuto la fortuna di nascere e crescere al di là di queste mura.
Ecco un’altra falla del sistema: le mamme con figli al di sotto di un anno dovrebbero stare negli “Istituti a custodia attenuata per detenute madri” (ICAM), che comunque sono sezioni carcerarie, e sono solo 5 in tutta Italia. Di questi nessuno è nel Lazio.

Un’ingiustizia destinata a peggiorare con il decreto Sicurezza, che prevede misure come la possibilità del carcere per le donne incinte e sanzioni disciplinari atroci per le detenute madri come quella nei confronti della donna che, in un ICAM, nel caso protesti o abbia un conflitto con la custodia, potrebbe vedersi sottrarre il figlio e affidato ai servizi sociali. Una deriva autoritaria che ci riporta indietro di anni luce sul piano dei diritti civili e delle donne.

A Rebibbia per me ha avuto dunque senso entrare, in punta di piedi, per rispondere all’appello contro le misure del dl Sicurezza lanciato dalla campagna “Madri Fuori” dell’associazione La Società della Ragione. Ci sono poi tutte le altre tappe di questa “via crucis” che la “società perbene” ha voluto rimuovere: la casetta dove le detenute incontrano i propri figli, che dopo il terzo anno d’età possono stare fuori dal carcere, vivendo separati dalla mamma; poi ci sono le storie di molti bambini arrivati negli anni come “invisibili”, senza alcun vaccino e spesso non sono nemmeno registrati all’anagrafe e poi tagliati fuori da tutto il resto.

Come proponente della Legge regionale per il Sistema d’Istruzione Integrato 0-6 anni, mi ha molto colpito lo studio secondo cui le bambine e i bambini che frequentano l’asilo nido hanno maggiori possibilità di progredire nel proprio percorso formativo rispetto a coloro che non l’hanno frequentato.

In questa piccola cittadella, l’età media delle donne è diminuita, sono aumentate le detenute che hanno appena 18 anni. La gran parte arriva con alle spalle storie di tossicodipendenza, abusi, costrette a prostituirsi da madri a loro volta tossicodipendenti. Allora per fare pace col proprio corpo, ci si aiuta con sport, yoga e altre attività. Ci sono poi le detenute con disagi psichici, rimpallate tra carceri e Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza (Rems).
Viene quindi da chiedersi: dov’erano tutte le Istituzioni, prima che queste donne, con o senza figli, approdassero, un passo falso dopo l’altro, in carcere?

Una domanda ancora aperta a cui come Istituzioni, dobbiamo rispondere evolvendoci rispetto alla “cultura dello scarto umano”, in primis contrastando le misure del dl Sicurezza, e poi con più fondi per prevenire il disagio sociale, percorsi di recupero e reinserimento e un Piano carceri per garantire condizioni dignitose a persone detenute e operatori.

Nel silenzio di questo microcosmo, intanto, esplode una canzone di tanti auguri cantata da una marea di voci dietro le sbarre per il compleanno di una detenuta e ci ricorda che ognuno di noi può restare umano.

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