Lunedì 21 dicembre ore 17/ PD: Lo smart working cambia Roma

 

Come tutti sappiamo e abbiamo sperimentato, il lockdown e la pandemia hanno costretto a un rapido cambiamenti dei tempi e delle modalità di vita e di lavoro. In questo ripensamento complessivo delle modalità di svolgimento delle prestazioni lavorative, di valutazione delle performance e della produttività, sicuramente un ruolo fondamentale lo ha avuto la tecnologia, o meglio, un nuovo rapporto con essa e la conseguente adozione di modalità flessibili nell’organizzazione lavorativa. Benché l’innovazione digitale e tecnologica fosse un tema di rilievo anche prima – non solo in ambito lavorativo, ma anche per la scuola e i servizi alla persona – nell’ultimo anno ciò che appariva come sperimentazione innovativa è divenuta una regola.

Il tema della conciliazione vita-lavoro tradizionalmente è stato affrontato nella prospettiva del sostegno all’equilibrio di genere nel lavoro di cura e, quindi, come uno strumento per promuovere la partecipazione delle donne al mercato del lavoro. Già da tempo però il problema della conciliazione dei tempi di vita è stato progressivamente concepito anche come strumento per favorire il benessere sul luogo di lavoro e, quindi, come un indicatore del “lavoro sostenibile” e cioè di un sistema di organizzazione e gestione del lavoro che sia efficiente e ottenga risultati economici e produttivi, e, allo stesso tempo, promuova e tuteli lo sviluppo delle capacità, delle competenze e dell’individualità del lavoratore, consentendo inoltre un adattamento dinamico delle condizioni di lavoro alle esigenze di quest’ultimo nell’arco di tutta la vita lavorativa.

Tra i modelli organizzativi innovativi si annovera sicuramente lo smart working, comunemente definito come la possibilità di svolgere il lavoro ovunque e in qualsiasi momento utilizzando nuove tecnologie di informazione e di comunicazione, in particolare i dispositivi mobili. Nel nostro ordinamento è disciplinato, con legge n. 81/2017, il “lavoro agile”, definito come quella modalità di esecuzione del lavoro subordinato che si svolge, entro i limi degli orari di lavoro giornaliero e settimanale, “in parte all’interno di locali aziendali e in parte all’esterno senza una postazione fissa”.

 

Prima della pandemia lo smart working coinvolgeva in Italia solamente circa 570 mila lavoratori, benché con un dato in incremento del 20% tra il 2018 e il 2019. Tra le realtà che avevano già sperimentato modalità di lavoro agile il 65% erano grandi imprese contro il 30% delle piccole e medie e il 23% della pubblica amministrazione.

Secondo uno studio condotto da Tito Boeri il 24% della forza lavoro nazionale può essere potenzialmente impiegata in smart working. Un dato importante, che ha permesso a molte aziende di utilizzare questa modalità di lavoro in risposta alla crisi sanitaria. Per esempio, tra le grandi imprese che non lo avevano già sperimentato prima, infatti, il 45% ha consentito ai propri lavoratori di entrare in smart working.

La de-materializzazione del luogo di lavoro e la flessibilizzazione dei tempi di lavoro, che caratterizzano questa modalità di esecuzione della prestazione lavorativa, sono strategie idonee a soddisfare, per un verso le esigenze dei datori di lavoro di ridurre i costi e incrementare la produttività, e, per l’altro le esigenze dei lavoratori di conciliare vita professionale e personale, grazie alla maggiore autonomia di cui essi possono godere nella gestione delle coordinate spazio-temporali della propria prestazione lavorativa.

Agli aspetti positivi si affiancano una serie di rischi, principalmente legati al fatto che le nuove tecnologie mobili rendono sempre più difficile prendere le distanze dalle attività lavorative. L’iperconnettività che può derivare dall’utilizzo delle nuove tecnologie digitali espone a maggiori rischi la salute – tanto fisica, quanto mentale – dei lavoratori da remoto.  Per altro verso, tende a confondere i confini tra vita professionale e vita personale, in contraddizione con la finalità stessa alla quale si assume sia orientato lo smart working.

In questo contesto si collocano la riflessione scientifica e la regolazione giuridica del diritto alla disconnessione, identificato come un possibile antidoto per gli effetti negativi dello smart working sulla salute e sul benessere di chi lavora. Possiamo definirlo come il diritto del lavoratore a interrompere i contatti con il datore di lavoro senza per questo incorrere nell’inadempimento della prestazione e, conseguentemente, esporsi a sanzioni disciplinari.  Gli ordinamenti più avanzati rispetto alla elaborazione teorica e alla disciplina del diritto alla disconnessione sono quello francese e tedesco, nei quali si sono sviluppate interessanti esperienze pioneristiche di regolazione per ridurre il lavoro da remoto informale e irregolare, ad opera, rispettivamente, della contrattazione collettiva e delle prassi aziendali. Il legislatore francese, con la legge del lavoro n.1088 del 2016, ha introdotto il diritto alla disconnessione tra le materie oggetto della negoziazione annuale obbligatoria per le imprese, che interviene su pari opportunità e qualità del lavoro. Tuttavia, non è stato previsto un obbligo a contrarre e di conseguenza, nel caso in cui non si raggiunga alcun accordo, la previsione delle modalità di attuazione di tale diritto è rimessa alla discrezionalità del datore di lavoro.

In Italia la citata legge n. 81/2017 prevede che “i tempi di riposo del lavoratore, nonché le misure tecniche e organizzative per assicurare la disconnessione del lavoratore dalle strumentazioni tecnologiche di lavoro” siano definiti da un accordo tra le parti del contratto di lavoro.  Il principale problema che si pone con riferimento a tale diritto alla disconnessione è quello della sua effettività ossia di come assicurarne la concreta applicazione prevedendo strumenti specifici per la sua attuazione al di là della dichiarazione formale nel testo normativo.

Tra le criticità dello smart working non possiamo non citare il diverso impatto che ha questa modalità lavorativa a seconda che si applichi a lavoratori o lavoratrici. Come è emerso da svariati studi sul tema, si può parlare di un impatto di genere della quarantena e in particolare di un diverso impatto della rimodulazione delle prestazioni lavorative. Secondo l’inchiesta di “Valore D”, durante la chiusura, 1 donna su 3 ha lavorato più di prima e non riusciva, o a fatica, a mantenere un equilibrio tra il lavoro e la vita domestica. Tra gli uomini il rapporto era di 1 su 5.

Questo “extreme” working è composto dalle difficoltà comuni della modalità agile – che richiede grande disciplina e per molti è stata una vera e propria sperimentazione – unite a tutto il carico di lavoro di cura extra, declinato in vari modi: supporto alla didattica a distanza, cura e intrattenimento dei bambini più piccoli, cura della casa, dei congiunti malati o non autosufficienti. Un’esasperazione di storture preesistenti ed aggravate dalla situazione emergenziale. La “gabbia” della pandemia non è però – sul lungo termine – lo smart working, ma tutto ciò che tale modalità lavorativa svela. Se durante la quarantena il problema era la chiusura della scuola, in generale lo è la mancanza (o l’eccessivo costo) dei servizi educativi e del tempo pieno. Ancora, il tema non è il maggiore carico di lavoro domestico dovuto alla chiusura in casa, ma che, normalmente, anche a parità di ore lavorate fuori, il lavoro riproduttivo ricada automaticamente e quasi esclusivamente sulle spalle delle donne.

Dobbiamo riconoscere, credo, che il principale gap salariale non ha luogo in azienda dove non si ottengono le promozioni o, nel caso delle lavoratrici autonome, nella svalutazione della propria professionalità che comporta parcelle inferiori. Il problema principale è l’ingente e ingiustificabile quota di lavoro non retribuito che viene quotidianamente e per tutta la vita svolto da ciascuna di noi, spesso senza il minimo riconoscimento.

Tornando a una dimensione più strettamente legislativa, con riferimento a tutte queste criticità, sto  cercando come Consigliera regionale e Presidente della Commissione Lavoro in Regione Lazio di dare il mio contributo.

Se penso ai tempi e gli spazi di vita e delle città non posso che ricorda l’importante legge approvata in estate, la legge regionale 7/2020, che ha aggiornato la normativa sui servizi educativi del Lazio e applicato – prima in Italia – il decreto legislativo sul sistema integrato 0-6 anni. Con questa legge, tra le tante novità, andiamo a supportare la genitorialità tanto percè potenziamo la rete di sostegno e di welfare intorno alle mamme e ai papà, quanto perché più strutture, sempre più accessibili e di qualità si traducono in una maggiore flessibilità e facilità sul lavoro.

Con particolare riferimento alla dimensione lavorativa sono in cantiere due proposte importantissime. Da una parte la P.L. 182 sulla parità retributiva, il sostegno e la valorizzazione dell’occupazione femminile di qualità che ha quasi concluso il suo iter in commissione ed è il frutto di un partecipatissimo percorso con tante e tanti soggetti che a vario titolo si occupano di donne e lavoro. Dall’altra, e mi avvio a concludere, la P.L. 260 che ho presentato il 7 dicembre 2020 che si occupa di “promuovere la digitalizzazione in ambito lavorativo e le relative tutele”. Alla luce di tutto quello che ho provato a riassumere nell’intervento mi è sembrato quanto mai urgente prevedere, anche a livello regionale, un quadro normativo rispetto non solo al lavoro agile, ma a tutto il processo di digitalizzazione del mercato del lavoro. Un quadro che, da un lato, appunto detti, per quanto di competenza, confini e norme. E dall’altro tuteli i lavoratori e le lavoratrici dalle storture e prevenendo i rischi.

Nello specifico, sono previsti degli interventi regionali, nel rispetto del riparto delle competenze, per promuovere modalità organizzative flessibili di svolgimento dell’attività lavorativa e l’utilizzo degli strumenti tecnologici e dei dispositivi digitali. Questo per il raggiungimento di una maggiore efficienza produttiva nel rispetto dell’equilibrio tra i tempi di vita e di lavoro, della salute psico-fisica delle lavoratrici e dei lavoratori.

E’ previsto che la Regione promuova processi partecipati tra i diversi soggetti coinvolti nelle realtà occupazionali e in particolare la costituzione di reti territoriali, la diffusione di buone pratiche tra le imprese e gli enti locali per favorire la creazione di reti di imprese virtuose e la realizzazione di studi che verifichino in quali realtà occupazionali, comprese quelle delle amministrazioni pubbliche, può essere sperimentato modelli organizzativi flessibili.

Istituiamo inoltre un tavolo tecnico presso l’assessorato al lavoro per verificare l’effettivo ricorso, nei vari ambiti lavorativi pubblici e privati operanti sul territorio, a modelli organizzativi flessibili che favoriscano l’equilibrio tra i tempi di vita e di lavoro, l’applicazione del sistema di tutele ad essi connesse e in particolare di quelle dirette a garantire la disconnessione dagli strumenti tecnologici e dai dispositivi digitali, pari opportunità per le lavoratrici e per i lavoratori in termini di progressioni professionali ed equa condivisione dei tempi di assistenza e cura;

La Regione inoltre si impegna anche al suo interno a favorire il processo di digitalizzazione e in il ricorso a modalità flessibili di svolgimento della prestazione lavorativa, assicurando al personale dipendente della Giunta e del Consiglio regionale, degli enti strumentali e delle società controllate dalla Regione, l’applicazione del principio dell’equilibrio dei tempi di vita e di lavoro, del diritto alla disconnessione, della condivisione dei tempi di cura familiari.

Infine, viene istituito un “Registro delle Imprese virtuose che applicano il principio dell’equilibrio tra i tempi di vita e di lavoro“. L’iscrizione al registro comporta un  sistema  di  premialità  consistenti  nel riconoscimento  di  punteggio  aggiuntivo,  ai  fini della   valutazione   dei progetti   presentati   nell’ambito   di   avvisi   e   bandi   regionali   per l’attribuzione dei benefici economici o anche contributi  fino  ad  un  importo pari  al  cento  per  cento  dell’IRAP  relativa  ai  periodi  di imposta, 2021, 2022, 2023.

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